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Con la sua proposta di una Somaestetica, articolata fondamentalmente in analitica, pragmatica e pratica, Richard Shusterman intende in primo luogo fornire e creare una cornice metodologica, un orientamento unitario che sia in grado di rintracciare, ricostruire e portare a manifestazione - all’interno di eterogenee riflessioni teoriche e pratiche somatiche - la comune esigenza di ridare luce alla dimensione corporea come modo primario di essere nel mondo. Recuperando l’accezione baumgarteniana di Aesthetica come gnoseologia inferiore, arte dell’analogo della ragione, scienza della conoscenza sensibile, la somaestetica intende dare nuovo impulso alla più profonda radice di estetica e filosofia che coglie la vita nel suo processo di metamorfosi e rigenerazione continua, in quel respiro vitale che, per quanto possa diventare cosciente, non è mai totalmente afferrabile dalla ragione discorsiva, situandosi piuttosto in quello spazio primordiale in cui coscienza e corpo si coappartengono, in cui il soggetto non è ancora individualizzabile perché fuso con l’ambiente, non è totalmente privatizzabile perché intrinsecamente plasmato dal tessuto sociale cui egli stesso conferisce dinamicamente forma. A partire dunque dalla rivalutazione del concetto di Aisthesis la disciplina somaestetica mira ad una intensificazione di sensorialità, percezione, emozione, commozione, rintracciando proprio nel Soma la fonte di quelle facoltà “inferiori” irriducibili a quelle puramente intellettuali, che permettono di accedere alle dimensioni qualitative dell’esperienza, di portare a manifestazione e far maturare l’essere umano come essere indivisibile che non si lascia incontrare da un pensiero che ne rinnega l’unitarietà in nome di fittizie e laceranti distinzioni dicotomiche. Nel corpo infatti si radicano in modo silente regole, convenzioni, norme e valori socioculturali che determinano e talvolta limitano la configurazione ed espressione di sensazioni, percezioni, cognizioni, pensieri, azioni, volizioni, disposizioni di un soggetto da sempre inserito in una Mitwelt (mondo comune), ed è allora proprio al corpo che bisogna rivolgersi per riconfigurare più autentiche modalità di espressione del soggetto che crea equilibri dinamici per mantenere una relazione di coerenza con il più ampio contesto sociale, culturale, ambientale. L’apertura al confronto con eterogenee posizioni filosofiche e l’intrinseca multidisciplinarietà spiegano la centralità nel contemporaneo dibattito estetologico internazionale della Somaestetica che, rivolgendosi tanto ad una formulazione teorica quanto ad una concreta applicazione pratica, intende rivalutare il soma come corporeità intelligente, senziente, intenzionale e attiva, non riducibile all’accezione peccaminosa di caro (mero corpo fisico privo di vita e sensazione). Attraverso la riflessione e la pratica di tecniche di coscienza somatica si portano in primo piano i modi in cui il sempre più consapevole rapporto con la propria corporeità come mediatamente esperita e immediatamente vissuta, sentita, offre occasioni autentiche di realizzazione progressiva di sé innanzitutto come persone, capaci di autocoltivazione, di riflessione cosciente sulle proprie abitudini incorporate, di ristrutturazione creativa di sé, di intensificata percezione e apprezzamento sensoriale sia nel concreto agire quotidiano, sia nella dimensione più propriamente estetologica di ricezione, fruizione e creazione artistica. L’indirizzo essenzialmente pragmatista della riflessione di Shusterman traccia così una concezione fondamentalmente relazionale dell’estetica in grado di porsi proprio nel movimento e nel rapporto continuamente diveniente di vera e propria trasformazione e passaggio tra le dimensioni fisiche, proprio-corporee, psichiche e spirituali del soggetto la cui interazione, ed il cui reciproco riversarsi le une nelle altre, può risultare profondamente arricchito attraverso una progressiva e sempre crescente consapevolizzazione della ricchezza della dimensione corporea in quanto intenzionale, percettiva, senziente, volitiva, tanto quanto vulnerabile, limitante, caduca, patica. Il presente lavoro intende ripercorrere ed approfondire alcuni dei principali referenti di Shusterman, focalizzandosi prevalentemente sulla radice pragmatista della sua proposta e sul confronto con il dibattito di area tedesca tra estetica, antropologia filosofica, neofenomenologia e antropologia medica, per riguadagnare una nozione di soma che proprio a partire dal contrasto, dall’impatto irriducibile con la potenza annullante delle situazioni limite, della crisi possa acquisire un più complesso e ricco valore armonizzante delle intrinseche e molteplici dimensioni che costituiscono il tessuto della soggettività incarnata. In particolare il primo capitolo (1. Somaestetica) chiarisce le radici essenzialmente pragmatiste della proposta shustermaniana e mostra come sia possibile destrutturare e dunque riconfigurare radicati modi di esperienza, rendendo coscienti abitudini e modi di vivere che si fissano a livello somatico in modo per lo più inavvertito. Il confronto con la nozione di Habitus, di cui Pierre Bourdieu mette brillantemente in luce l’invisibile e socialmente determinata matrice somatica, lascia scorgere come ogni manifestazione umana sia sostenuta dall’incorporazione di norme, credenze, valori che determinano e talvolta limitano l’espressione, lo sviluppo, persino le predisposizioni e le inclinazioni degli individui. Ed è proprio intervenendo a questo livello che si può restituire libertà alle scelte e aprirsi così alle dimensioni essenzialmente qualitative dell’esperienza che, nell’accezione deweyana è un insieme olistico unitario e coeso che fa da sfondo alle relazioni organismo-ambiente, un intreccio inestricabile di teoria e prassi, particolare e universale, psiche e soma, ragione ed emozione, percettivo e concettuale, insomma quell’immediata conoscenza corporea che struttura lo sfondo di manifestazione della coscienza.
In der Diskussion über Freiheit und Verantwortung vertritt die Hirnforschung die These, dass wir determiniert sind und unser Gehirn es ist, das denkt und entscheidet. Aus diesem Grunde könne uns für unsere Entscheidungen und Handlungen auch keine Verantwortung zugewiesen werden. Die Philosophie versucht in dieser Diskussion zu klären, ob wir trotz Determiniertheit für unsere Entscheidungen und Urteile verantwortlich sind oder ob Vereinbarkeit von Freiheit und Determinismus grundsätzlich nicht möglich ist. Diese Fragen stellt diese Untersuchung über Freiheit und Verantwortung nicht. In dieser Untersuchung wird ein gewisses Maß an Freiheit vorausgesetzt, weil diese Annahme der erste Schritt für unsere Freiheit ist. In dieser Arbeit geht es um die Verbindung von Freiheit und Verantwortung und was diese Verbindung in unserem Menschsein und Miteinander bedeutet. Ziel ist es, zu zeigen, dass wir uns zusätzliche Freiheit aneignen können, dass Bildung für unsere Freiheit nötig und dass Freiheit ohne Verantwortung nicht möglich ist. Die Untersuchung schließt sich Peter Bieris Thesen an, dass Aneignung von Freiheit und Bildung, die weder als Schul- noch als Ausbildung zu verstehen ist, möglich und nötig sind, um verantwortlich entscheiden und handeln zu können, lehnt jedoch Peter Bieris These ab, dass bedingte Freiheit Voraussetzung für unsere Freiheit ist. Zudem geht diese Arbeit über Peter Bieri hinaus, indem sie eine Lösungsmöglichkeit für unsere Freiheit und der damit verbundenen Verantwortlichkeit anbietet. Als Lösung wird eine Bildung vorgeschlagen, die uns die Verbundenheit mit den anderen und die Abhängigkeit von den anderen zeigt und die die Rechte und Bedürfnisse der anderen ebenso anerkennen lässt wie unsere eigenen. Es ist eine Bildung, die nicht nur Wissen, sondern auch bestimmte rationale und emotionale Kompetenzen beinhaltet. Es ist eine Bildung, die als lern- und lehrbar angesehen wird. Um diese Bildung als eine Notwendigkeit für unsere Freiheit und Verantwortlichkeit uns und den anderen gegenüber vermitteln zu können, ist es wichtig, uns in unserem Wesen verstehen. Deshalb werden in dieser Arbeit Faktoren dargestellt, die auf uns wirken und die uns als Menschen ausmachen. Es sind Faktoren, die auf unsere Freiheit und Verantwortung Einfluss nehmen, indem sie unsere Entscheidungen, unser Urteilsvermögen und in diesem Sinne auch unsere Handlungen ermöglichen oder einschränken. Durch die Darstellung dieser Faktoren werden wir auf unsere Möglichkeiten hingewiesen, die uns unser Leben in Selbstverantwortung und in Verantwortlichkeit den anderen gegenüber gestalten lassen. In dieser Untersuchung wird gezeigt, dass Freiheit ohne Verantwortung nicht möglich ist und es wird gezeigt, dass wir, wenn wir unsere Verantwortung abgeben, unsere Freiheit verlieren.
Meiner nichtreduktionistischen Lesart Gadamers, derzufolge eine wechselseitige konstitutive Relation zwischen „Sprache“ und „Erfahrung“ besteht, ist es gestattet, den Vorwurf, die Sprachphilosophie Gadamers führe in den Relativismus, den man häufig gegenüber sprachphilosophischen Positionen erhebt, abzuweisen. Manchen Denkern zufolge haben die Philosophen der Postmoderne, zu denen auch Gadamer gezählt wurde, eine einfache Umkehrung der beiden Pole des modernen Verhältnisses „Sprache“ – „Erfahrung“ vollzogen: Während die Sprache in der Moderne in ihrer Bedingtheit zur Erfahrung und als bloßes Ausdrucksmittel verstanden wurde, wurde dieses Verhältnis in der neueren Philosophie nur umgekehrt, insofern die Philosophie in der Sprache das Fundament für die Erfahrung sehe, wonach die Erfahrung als ein Ausdruck der Sprache erscheine. Die vorliegende Arbeit setzt sich mit diesem Relativismusvorwurf auseinander und beabsichtigt, eine wechselseitige Abhängigkeit zwischen Sprache und Erfahrung ausgehend von Hans-Georg Gadamers Werk zu entwickeln. Um das zu erreichen, wurden zunächst eine doppelte negative-positive Erfahrungsstruktur und dann einige phänomenologische und transzendentale Merkmale der Erfahrung auf dem historischen Hintergrund für Gadamers Erfahrungsbegriff herausgearbeitet. Somit machte sich die konstitutive Sprachlichkeit der Erfahrung erkennbar. In einer Auseinandersetzung mit dem Sprachbegriff auf der anderen Seite wurde sein dialogischer und welterschließender Charakter veranschaulicht, so dass auch seine Angewiesenheit auf die Welterfahrung offenkundig wurde.
Resolute readings of later Wittgenstein and the challenge of avoiding hierarchies in philosophy
(2011)
This dissertation addresses the question: How did later Wittgenstein aim to achieve his goal of putting forward a way of dissolving philosophical problems which centered on asking ourselves what we mean by our words – yet which did not entail any claims about the essence of language and meaning? This question is discussed with reference to “resolute” readings of Wittgenstein. I discuss the readings of James Conant, Oskari Kuusela, and Martin Gustafsson. I follow Oskari Kuusela’s claim that in order to fully appreciate how later Wittgenstein meant to achieve his goal, we need to clearly see how he aimed to do away with hierarchies in philosophy: Not only is the dissolution of philosophical problems via the method of clarifying the grammar of expressions to be taken as independent from any theses about what meaning must be – but furthermore, it is to be taken as independent from the dissolution of any particular problem via this method. As Kuusela stresses, this also holds for the problems involving rule-following and meaning: the clarification of the grammar of “rule” and “meaning” has no foundational status – it is nothing on which the method of clarifying the grammar of expressions as such were meant to in any way rely on. The lead question of this dissertation then is: What does it mean to come to see that the method of dissolving philosophical problems by asking “How is this word actually used?” does not in any way rely on the results of our having investigated the grammar of the particular concepts “rule” and “meaning”? What is the relation of such results – results such as “To follow a rule, [...], to obey an order, [...] are customs (uses, institutions)” or “The meaning of a word is its use in the language” – to this method? From this vantage point, I concern myself with two aspects of the readings of Gustafsson and Kuusela. In Gustafsson, I concern myself with his idea that the dissolution of philosophical problems in general “relies on” the very agreement which – during the dissolution of the rule-following problem – comes out as a presupposition for our talk of “meaning” in terms of rules. In Kuusela, I concern myself with his idea that Wittgenstein, in adopting a way of philosophical clarification which investigates the actual use of expressions, is following the model of “meaning as use” – which model he had previously introduced in order to perspicuously present an aspect of the actual use of the word “meaning”. This dissertation aims to show how these two aspects of Gustafsson’s and Kuusela’s readings still fail to live up to the vision of Wittgenstein as a philosopher who aimed to do away with any hierarchies in philosophy. I base this conclusion on a detailed analysis of which of the occasions where Wittgenstein invokes the notions of “use” and “application” (as also “agreement”) have to do with the dissolution of a specific problem only, and which have to do with the dissolution of philosophical problems in general. I discuss Wittgenstein’s remarks on rule-following, showing how in the dissolution of the rule-following paradox, notions such as “use”, “application”, and “practice” figure on two distinct logical levels. I then discuss an example of what happens when this distinction is not duly heeded: Gordon Baker and Peter Hacker’s idea that the rule-following remarks have a special significance for his project of dissolving philosophical problems as such. I furnish an argument to the effect that their idea that the clarification of the rules of grammar of the particular expression “following a rule” could answer a question about rules of grammar in general rests on a conflation of the two logical levels on which “use” occurs in the rule-following remarks, and that it leads into a regress. I then show that Gustafsson’s view – despite its decisive advance over Baker and Hacker – contains a version of that same idea, and that it likewise leads into a regress. Finally, I show that Kuusela’s idea of a special significance of the model “meaning as use” for the whole of the method of stating rules for the use of words is open to a regress argument of a similar kind as that he himself advances against Baker and Hacker. I conclude that in order to avoid such a regress, we need to reject the idea that the grammatical remark “The meaning of a word is its use in the language” – because of the occurrence of “use” in it – stood in any special relation to the method of dissolving philosophical problems by describing the use of words. Rather, we need to take this method as independent from this outcome of the investigation of the use of the particular word “meaning”.
Die Analyse vergleicht Installationen von Bruce Nauman und Olafur Eliasson ausgehend von der Fragestellung, wie sich die künstlerischen Performativitätsstrategien der 1960er/70er Jahren und die der zeitgenössischen Kunst in ihren Wirkungen und Effekten unterscheiden lassen. Dabei werden die Positionen der beiden Künstler als paradigmatisch für eine Ästhetik des Performativen angesehen. Neben dem Vergleich der Künstler steht die theoretische Auseinandersetzung mit der Diskursfigur der Performativität sowie deren methodischen Anwendbarkeit in der Kunstwissenschaft im Vordergrund. Während sich Installationen der 1960er/70er Jahre besonders durch die psycho-physische Einwirkung auf die Sinneswahrnehmung des Betrachters auszeichnen und durchaus Schockeffekte beim Betrachter hervorrufen, befasst sich die zeitgenössische Kunstpraxis vornehmlich mit visuellen und poetischen Effekten, die eine kontemplative Rezeptionshaltung des Betrachters einfordern. Bruce Nauman war es ein Anliegen, den tradierten Status des Kunstwerks als ein zu Betrachtendes, das sich durch Begriffe wie Form, Ursprung und Originalität fassen ließ, in Frage zu stellen und stattdessen eine reale leibliche Erfahrung für den Betrachter nachvollziehbar werden zu lassen. Künstlern wie Olafur Eliasson geht es in den künstlerischen Produktionen vor allem um die Wahrnehmung der Wahrnehmung sowie der Erzeugung von Präsenzeffekten. Mit dem Aufkommen solcher Verfahren wurde deutlich, dass performative Installationen nach anderen Beschreibungsformen verlangten und, dass diese durch eine Ästhetik des Performativen gefasst werden können. Wie genau vollzieht sich der Wandel von den performativen Strategien der 1960er/70er Jahre zu denen der zeitgenössischen Installationskünstlern? Verläuft dieser vom Schock zur Poesie?
Imre Kertész ist 1929 in Budapest geboren und dort aufgewachsen. 1944 wurde er im Rahmen einer Judendeportation verhaftet und über Auschwitz in das KZ Buchenwald verbracht. Nach der Befreiung des Lagers 1945 kehrte er in seine Heimatstadt zurück, wo er seit 1953 als Schriftsteller und Übersetzer tätig war. 2001 verlegte er seinen Lebensmittelpunkt nach Berlin. 2002 erhielt er den Nobelpreis für Literatur. Ziel der Untersuchung ist die Rekonstruktion einer in Kertész’ Werk allegorisch codierten Anthropologie und einer damit implizierten Ästhetik. Die Basis der fraglichen Anthropologie ist der Begriff des Lebens. Das spezifisch menschliche Leben zeichnet sich durch den Prozess der kulturellen Evolution aus, welcher durch verständigungsorientierte Mittel rational zu steuern ist. Die hieraus resultierende Dialektik wird von autonomen Personen konstituiert. Dabei erscheint die generationenübergreifende Reproduktion der Personenrolle und des damit einhergehenden menschlichen Bewusstseins als unbedingte Pflicht im Sinne Kants. Letzterer Vorgang kann als ästhetische Erfahrung beschrieben werden, bei der die menschliche Ontogenese jeweils in Orientierung an paradigmatischen Darstellungen der Personalität respektive der Personalisierung erfolgt.
In this work the concept of 'context' is considered in five main points. First, context is seen as always necessary for an adequate explication of the concepts of meaning and understanding. Context always plays a role and is not merely brought into consideration when handling a special class of statements or terms, or when there is doubt and clarification is necessary. Second, context cannot be completely reduced to some system of representation. The reason for this is the presence of humans, which is always an important component of a context. Humans experience situations in ways that are not always reducible to symbolic representation. Third, contexts are in principle open. In normal cases they cannot be determined or described in advance. A context is not to be equated with a set of information. Fourth, we understand the parameters of a context pragmatically, which is why we are not led into doubt or even to meaning skepticism by the open nature of a context. This pragmatic knowledge belongs to the category of an ability. Fifth, contexts are, in principle, accessible. This denies the idea that some contexts are incommensurable. There are a number of pragmatic ways of accessing unfamiliar contexts. Some of these are here examined in light of the so-called 'culture wars' in the U.S.A.
Hauptanliegen der Dissertation ist es, einen Entwurf einer praktischen Ästhetik zu lancieren, der an der Schnittstelle zwischen philosophischer Ästhetik und Kunst – genauer Performancekunst - im Zeichen der Bezugsgrösse der Verletzbarkeit steht. In jüngeren Ästhetikansätzen hat sich eine Auffassung herauskristallisiert, die nicht über, sondern mit Kunst reflektiert. Die Pointe im ‚Mit’ liegt darin, dass diese Ästhetiken die Kunst nicht erklären, sie bestimmen und damit ihre Bedeutung festlegen, sondern dass diese entlang der Kunst die Brüche, Widerstände und Zäsuren zwischen Wahrnehmen und Denken markieren und diese als produktiv bewerten. Diese Lesart etabliert ein Denken, das nicht aus der Distanz auf etwas schaut (theoria), sondern ästhetisch-reflektierend (zurückwendend, auch selbstkritisch) mit der Kunst denkt. Die Disziplin der Ästhetik - als aisthesis: Lehre der sinnlichen Wahrnehmung - nimmt innerhalb der Philosophie eine besondere Stellung ein, weil sie auf ebendiese Differenz verweist und deshalb sinnliche und nicht nur logisch-argumentatorische Denkfiguren stärkt. Als eine Möglichkeit, die Kluft, das Nicht-Einholbare, die brüchige Unzulänglichkeit des begrifflich Denkenden gegenüber ästhetischer Erfahrung zu stärken, schlage ich die Bezugsgrösse der Verletzbarkeit vor. Eine solche Ästhetik besteht aus dem Kreieren verletzbarer Orte, wobei diese auf zweierlei Weisen umkreist werden: Zum einen aus der Kunstpraxis heraus anhand der ästhetischen Figur des verletzbaren Körpes, wie er sich in der zeitgenössischen Performance zeigt. Zum anderen als ein Kreieren von Begriffen im Bewusstsein ihrer Verletzbarkeit. Ausgangspunkte sind die Denkentwürfe von Gilles Deleuze und Hans Blumenberg: Die Ästhetik von Gilles Deleuze entwirft eine konkrete Überschneidungsmöglichkeit von Kunst und Philosophie, aus der sich meine These des Mit-Kunst-Denkens entwickeln lässt. Sie kann aus der Grundvoraussetzung des Deleuzeschen Denkens heraus begründet werden, die besagt, dass nicht nur die Kunst, sondern auch die Philosophie eine schöpferische Tätigkeit ist. Beide Disziplinen beruhen auf dem Prinzip der creatio continua, durch welche die Kunst Empfindungen und die Philosophie Begriffe schöpft, wobei eben genau dieser schöpferische Prozess Kunst und Philosophie in ein produktives Verhältnis zueinander treten lässt. Wie Deleuze seine Begriffsarbeit entlang künstlerischer Praxis entwickelt, wird anhand der Analyse des bis heute wenig rezipierten Textes Ein Manifest weniger in Bezug auf das Theater von Carmelo Bene analysiert. Eine ganz anderen Zugang zum Entwurf einer praktischen Ästhetik liefert Hans Blumenberg, der eine Theorie der Unbegrifflichkeit in Aussicht stellt. Im Anschluss an seine Forderung, die Metapher wieder vermehrt in die philosophische Denkpraxis zu integrieren, radikalisiert er seine Forderung, auch das Nichtanschauliche zu berücksichtigen, indem er das gänzlich Unbegriffliche an die Seite des Begrifflichen stellt. Definitorische Schwäche zeigt sich als wahrhaftige Stärke, die in der Unbegrifflichkeit ihren Zenit erreicht. Der Schiffbruch wird von mir als zentrale Metapher – gewissermassen als Metapher der Metapher – verstanden, die das Auf-Grund-Laufen des Allwissenden veranschaulicht. Im Schiffbruch wird die produktive Kollision von Theorie und Praxis deutlich. Deleuze und Blumenberg zeigen über ‚creatio continua’ und ‚Unbegrifflichkeit’ die Grenzen des Begreifens, indem sie betonen, dass sich Ästhetik nicht nur auf künstlerische Erfahrungen bezieht, sondern selber in das Gegenwärtigmachen von Erfahrungen involviert ist. Daraus folgt, dass ästhetische Reflexion nicht nur begrifflich agieren muss. Die praktische Ästhetik animiert dazu, andere darstellerische Formen (Bilder, Töne, Körper) als differente und ebenbürtige reflexive Modi anzuerkennen und sie als verletzbarmachende Formate der Sprache an die Seite zu stellen. Diese Lesart betont den gestalterischen Aspekt der Ästhetik selber. Zur Verdeutlichung dieser Kluft zwischen (Körper-)Bild und Begriff ist der von mir mitgestaltete Film Augen blickeN der Dissertation als Kapitel beigefügt. Dieser Film zeigt Performer und Performerinnen, die sich bewusst entschieden haben, ihren ‚abweichenden’ Körper auf der Bühne zu präsentieren. Das Wort Verletzbarkeit verweist auf die paradoxe Situation, etwas Brüchiges tragfähig zu machen und dadurch auch auf eine besondere Beziehungsform und auf ein existenzielles Aufeinander-Verwiesensein der Menschen. Verletzbarkeit geht alle an, und stiftet deshalb eine Gemeinsamkeit besonderer Art. In diesem Sinne sind verletzbare Orte nicht nur ästhetische, sondern auch ethische Orte, womit die politische Dimension des Vorhabens betont wird.